La Provincia Martedì, 28 novembre 2000                 CANTU’                                           30co

 

FIGINO SERENZA. Un’altra serata esaltante per la singolare compagnia canturina guidata dal regista Sergio Porro

Palestra o chiesa, purché sia teatro

E alla fine i frutti dell’albero d’oro diventano regali per il pubblico

 

Il Teatro Artigiano e Sergio Porro “falegname”, drammaturgo e regista esigentissimo, sembrano inseguire, più che un'idea, una visione fuori dalle regole commerciali (infatti nessuno è a libro paga)

 

Il Teatro Artigiano di Cantù non smette mai di stupirsi. Ondeggia - anche - tra l'atteggiamento tipico della compagnia professionale che sa usare qualsiasi ambiente come cassa di risonanza efficace delle proprie vibrazioni e la compagnia di ricerca, che s'avvicina ai luoghi deputati con stupefatta curiosità. Può essere un laboratorio (come per le messe in scena storiche), una chiesa (per Grua, un mese fa), un teatro vero (il Fumagalli, per esempio) o uno spazio teatrale anomalo come l'Aut Off a Milano, il boschetto di Villa Erba a Cernobbio e numerosi altri spazi; ora una palestra, sabato sera a Figino Serenza.

«I frutti dell' Albero d'oro» non sono una novità (dopo una ventina di repliche in Italia); nuovo è l'atteggiamento del gruppo che sa – appunto - ancora sorprendersi. Nella loro capacità di fare, di costruire uno spettacolo, sviluppando il testo come una materia malleabile, perfezionandolo continuamente e quasi lisciandolo, tutti i componenti sembrano operai nel laboratorio del teatro.

Se lo spettacolo «I frutti dell'Albero d'oro» fosse un mobile sarebbe un disastro dai costi altissimi: per la lentezza con la quale l'opera ha preso forma e per 1'incertezza del "finito", sottoposto com’è a continua revisione.

Il Teatro Artigiano e Sergio Porro "falegname", drammaturgo e regista esigentissimo, sembrano inseguire, più che un'idea, una visione fuori dalle regole commerciali (infatti nessuno è a libro paga e in questo sono poco brianzoli}, ma densamente dentro il teatro come emozione.

La storia, tratta da una novella di Marie-Catherine d'Aulnoy dama e scrittrice alla corte del Re Sole, inizia in tristezza e narra di un principe e di una principessa entrambi deformi e costretti, dalla ragion di Stato, ad un matrimonio che essi rifiutano. Poi la vita li porterà ad incontrarsi nuovamente, risanati nel corpo e ancor più forti nel carattere.

La loro maturazione, come un frutto prezioso, non è solo il risultato della magia inevitabile di un ramo d'oro - siamo pur sempre dentro una fiaba -, ma è anche il senso del viaggio dei due protagonisti così segnato da incontri fortuiti quanto straordinari.

Maghi, fate, regine e re, vestiti dai cenci senza colore e senza un tempo di Peppo Peduzzi, e abitatori di una foresta evocata dai paraventi bellissimi di Valerio Gaeti, resi profondi e mobili dalle luci di Fabio Tagliabue, accompagnano Brillante e Bello-senza-pari nel loro attraversare la crudeltà, il dolore, i piaceri, le gioie della vita. Infine, l'amore.

Anche questa volta non conta la vicenda; sarebbe un limite ai sentimenti che dallo spettacolo scaturiscono come una fonte pura ed inesauribile. Questa volta - come sempre negli spettacoli del T. A. - contano le emozioni che trascinano lo spettatore dentro la storia. Una fiaba dolcissima narrata dagli otto "lavoranti " con l'abilità e la passione di chi insegue il piacere di continuare a stupirsi e di offrire, attraverso la naturalezza del dire e la semplicità del creare, qualcosa di assaporabile, di gustabile e di vero. Come i frutti che alla fine della storia, tra gli applausi, sono donati agli spettatori.

 

Gerardo Monizza